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I film del Mereghetti – Viaggio nel cinema italiano

L’oro di Napoli _ 2
Nei primi sei mesi del 2024, abbiamo pensato di portare il nostro pubblico a fare un viaggio nella storia del cinema italiano. Poiché non è facile orientarsi tra le migliaia di film fondamentali prodotti nel nostro paese a partire dal secondo dopoguerra, abbiamo sentito il bisogno di una guida d’eccezione. Abbiamo quindi chiesto a Paolo Mereghetti, il principale critico cinematografico italiano, autore dello storico dizionario dei film pubblicato a partire dal 1993, di scegliere sette film capaci di rappresentare, uno per decennio, l’evoluzione del nostro cinema dagli anni Quaranta agli anni Duemila.

 

Vi proponiamo quindi di seguirci, da gennaio a fine maggio, nella rassegna “I film del Mereghetti – Viaggio nel cinema italiano”. A eccezione dell’ultimo, i film si terranno presso il nostro Auditorium.

Ecco il calendario delle proiezioni:

N.B. I film saranno proiettati in italiano con sottotitoli in inglese.

Vi aspettiamo!

 

Per l’occasione, Paolo Mereghetti ha composto un breve testo di introduzione al cinema italiano, che vi proponiamo qui di seguito come lettura prima di intraprendere il nostro viaggio.

Un breve viaggio nel cinema italiano dal dopoguerra

Dopo il lungo periodo dei «telefoni bianchi», durante il quale il cinema italiano aveva fatto molta fatica a guardare e a raccontare una realtà che il Regime fascista voleva edulcorata e anestetizzata (anche se registi come Camerini, Mattoli, Poggioli o Blasetti a volte riuscivano a squarciare quel velo censorio), l’esplosione del neorealismo costrinse gli italiani a fare i conti con la realtà. Anche al cinema. Roma città aperta (1946, di Roberto Rossellini), dove la scena in cui l’ufficiale della Gestapo costringe Fabrizi a guardare Pagliero torturato divenne metafora di un intero Paese costretto ad «aprire gli occhi» di fronte agli orrori appena superati, e poi ancora Sciuscià (1946 di Vittorio De Sica), Paisà (1946, di Rossellini), Ladri di biciclette (1948 di De Sica) e La terra trema (1948, di Luchino Visconti) sono i momenti che hanno segnato la rinascita, anche produttiva, del cinema italiano. Quei film riportano l’attenzione del mondo intero sul cinema italiano (i due film di De Sica Sciuscià e Ladri di biciclette vincono l’Oscar per il miglior film straniero), restituiscono dignità a un Paese che vuole dimenticare il Ventennio e contribuiscono a ridare fiducia a un’industria ridotta in macerie dalla Seconda Guerra Mondiale, quando Cinecittà era ancora un campo per i profughi e i senzatetto.

Il messaggio neorealista informa così molte altre produzioni dove il primitivo sguardo sulla realtà viene declinato attraverso punti di vista personali, a volte incrociandosi con i generi più popolari, come il western (Caccia tragica, 1947, di Giuseppe De Santis), il melodramma (Vivere in pace, 1947, di Luigi Zampa; Riso amaro, 1949, di Giuseppe De Santis), il noir (Il bandito, 1946, di Alberto Lattuada; Fuga in Francia, 1948, di Mario Soldati), il fantastico (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica). O svelando addirittura una qualche ambizione «politica» e sociale, come è il caso di L’onorevole Angelina (1947, di Zampa). Un’esperienza che però finisce presto per esaurirsi – analizzata nelle sue tentazioni populiste da Bellissima (1952, Visconti) o nei sui fallimenti da Umberto D. (1952, De Sica) – e che prende strade più vicine alla commedia, stigmatizzata dalla critica più intransigente (che parla di «neorealismo rosa») ma più apprezzata dal pubblico (Domenica d’agosto, 1950, di Luciano Emmer; Guardie e ladri, 1951, di Mario Monicelli; Due soldi di speranza, 1952, di Renato Castellani; Pane, amore e fantasia, 1953, di Luigi Comencini) e che trova uno dei suoi momenti più riusciti con L’oro di Napoli (1954), dove De Sica riunisce alcuni degli attori più rappresentativi di quel momento, da Totò a Eduardo De Filippo, da Sophia Loren a Silvana Mangano, da Paolo Stoppa allo stesso Vittorio De Sica.

Sono anni in cui la critica ha occhi solo per i film neorealisti, ma il pubblico stravede per i campioni nazionali della comicità come Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Tina Pica, Alberto Sordi, per i melodrammi declinati nella forma popolare di Raffaello Matarazzo con la coppia Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson (Catene, 1949; Tormento, 1950; I figli di nessuno, 1952; Angelo bianco, 1955) o in quella più raffinata di Alberto Lattuada (Anna, 1951), Michelangelo Antonioni (La signora senza camelie, 1953) o Carlo Lizzani (Cronache di poveri amanti, 1954).

Gli anni Cinquanta sono quelli in cui i grandi registi del cinema italiano mettono a punto le proprie strade e i propri stili: Antonioni purificando sempre più il proprio stile (Le amiche, 1955; Il grido, 1957), Fellini intrecciando ironia grottesca e attenzione ai reietti (La strada, 1954; Il bidone, 1955; Le notti di Cabiria, 1957), Visconti misurandosi con la grande tradizione del melodramma (Senso, 1954) e Rossellini sperimentando nuove strade dopo il neorealismo (Europa ’51, 1952; Viaggio in Italia, 1954; Il generale Della Rovere, 1959), arrivando nel 1960 a presentare, i primi tre, i loro film forse più celebri – L’avventura Antonioni, La Dolce Vita Fellini e Rocco e i suoi fratelli Visconti – a conferma di un periodo particolarmente creativo e felicemente prolifico di grandi film. A cui vanno aggiunti anche i primi titoli del genere nazionale più conosciuto, la «commedia all’italiana»: Mario Monicelli firma I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959) e I compagni (1963); Dino Risi Il vedovo (1959), Una vita difficile (1961, che personalmente considero il suo capolavoro), Il sorpasso (1962) e I mostri (1963); Luigi Comencini Tutti a casa (1960) e A cavallo della tigre (1961); Antonio Pietrangeli Nata di marzo (1958) e La parmigiana (1963); Pietro Germi Un maledetto imbroglio (1959) e Divorzio all’italiana (1961), Alberto Lattuada La spiaggia (1954), Dolci inganni (1960) e Mafioso (1962).

Favorite anche da una grande scuola di sceneggiatori – Age e Scarpelli, Sonego, De Concini, Benvenuti e De Bernardi, Maccari e Scola (che esordirà nella regia nel 1964) – quelle commedie sono capaci di sfruttare la maggior libertà offerta dalla censura per coniugare irriverenza e divertimento, analisi critica della realtà e attenzione al nuovo, intrecciare gli umori meno conformisti con le trasformazioni e le aspirazioni del pubblico. Il cinema italiano lancia nuovi volti (Tognazzi, Gassman, Manfredi, Monica Vitti, accanto a un inossidabile Sordi) e si apre a nuove proposte, capaci anche di rinnovare gli stili e sfidare i gusti più consolidati. Esordiscono in quegli anni Pier Paolo Pasolini (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962), Elio Petri (L’assassino, 1961; I giorni contati, 1962; Il maestro di Vigevano, 1963), Ermanno Olmi (Il tempo si è fermato, 1959; Il posto, 1961; I fidanzati, 1963), Florestano Vancini (La lunga notte del ’43, 1960), Paolo e Vittorio Taviani (Un uomo da bruciare, 1962, con Valentino Orsini; I fuorilegge del matrimonio, 1963), conferma il proprio talento Francesco Rosi (I magliari, 1959; Salvatore Giuliano, 1962; Le mani sulla città, 1963) e torna dalla Spagna Marco Ferreri (Una storia moderna: l’ape regina, 1963; La donna scimmia, 1964). Mentre il western all’italiana (Per un pugno di dollari, 1964, e Il buono, il brutto e il cattivo, 1966, Sergio Leone) conquista il pubblico e aiuta a combattere la concorrenza televisiva.

Sono anni straordinariamente vivaci, dove i «vecchi» maestri creano fianco a fianco con i «nuovi» (Prima della rivoluzione, 1964, Bernardo Bertolucci; I pugni in tasca, 1965, Marco Bellocchio), tutti protesi verso un cinema ancora capace di dialogare con le tensioni più vive della società. Fellini riflette sui rapporti tra l’artista e la società che lo circonda (8 ½, 1963; Giulietta degli spiriti, 1965), Visconti si confronta con i grandi momenti della storia (Il gattopardo, 1963; La caduta degli dei, 1969) e Antonioni prosegue nell’analisi delle angosce dell’uomo contemporaneo (L’eclisse, 1962; Il deserto rosso, 1964; Blow-up, 1966), i maestri della commedia continuano a graffiare (Pietrangeli con Io la conoscevo bene, 1965; Germi con Signore & signori, 1966; Monicelli con L’armata Brancaleone, 1966, Risi con Straziami ma di baci saziami, 1968; Lattuada con Venga a prendere il caffè… da noi, 1970, Comencini con Lo scopone scientifico, 1972) mentre il Sessantotto spinge alcuni registi a un più preciso rapporto con tematiche politiche: Bellocchio con La Cina è vicina, 1967, e Nel nome del padre, 1971; Ferreri con Dillinger è morto, 1969, Petri con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; Rosi con Il caso Mattei, 1972 e Lucky Luciano, 1973; Scola con C’eravamo tanto amati, 1974. Anche se solo tre anni più tardi, lo stesso Scola con Una giornata particolare (1977) sembra inaugurare un nuovo momento, più riflessivo e più ripiegato su se stesso.

Poi, però, arrivano gli «anni di piombo» e l’incupimento del Paese porta con sé un malessere generalizzato (sono gli anni del «poliziottesco», coi film di Fernando di Leo e Umberto Lenzi) mentre i registi più sensibili sembrano contagiati da un più diffuso pessimismo (Cadaveri eccellenti, 1976, di Rosi; Todo modo, 1976, di Petri; La terrazza, 1980, di Scola; La grande abbuffata, 1973, e Ciao maschio, 1978, di Ferreri) e la risata assume toni più acidi e neri (Monicelli con Amici miei, 1975 e Un borghese piccolo piccolo, 1977; Dino Risi con I nuovi mostri, 1977; Luigi Comencini con L’ingorgo, 1979).

Il cinema risente della crisi generale del Paese e paga l’esplosione delle televisioni private che finiscono inevitabilmente per ingigantire il tasso di volgarità. Nel 1985 i biglietti venduti si sono ridotti a 195 milioni (dagli 819 del 1955), dando inizio a quella fase discendente da cui sembra sempre più difficile rialzarsi. Fanno eccezione lo spirito giovanilista delle commedie di Gabriele Salvatore (Marrakesch Express, 1989; Mediterraneo, 1991, a sorpresa Oscar come miglior film straniero) e i cosiddetti «nuovi comici» che recuperano temi e modi della commedia all’italiana per coniugarli con un più accentuato marchio autoriale (Carlo Verdone con Un sacco bello, 1980, Bianco, rosso e Verdone, 1981, Compagni di scuola, 1988; Massimo Troisi con Ricomincio da tre, 1981, Scusate il ritardo, 1983, Non ci resta che piangere, 1984; Francesco Nuti con Tutta colpa del paradiso, 1985, Caruso Pascoski di padre polacco, 1988). Su tutti, Nanni Moretti riesce a dar forma non solo a un nuovo tipo di comicità ma anche a un personaggio capace di incarnare i sogni e i dubbi della generazione uscita dalle macerie del Sessantotto e del Settantasette con Ecce bombo (1978), Bianca (1984) o Palombella rossa (1989).

A cavallo del passaggio al nuovo secolo il cinema italiano fatica a trovare nuove strade, avendo ormai perso quel rapporto privilegiato con il pubblico che aveva avuto nel Novecento e che ora è soppiantato dalla televisione, cui seguirà l’universo variegato dei social. Se Paolo Virzì riesce a rinnovare lo spirito della «vecchia» commedia all’italiana (Ferie d’agosto, 1996, Ovosodo, 1997, Caterina va in città, 2003) spiccano percorsi coerenti e solitari come quello di Gianni Amelio (Il ladro di bambini, 1992, Lamerica, 1994, Le chiavi di casa, 2004), di un sempre più maturo Moretti (Caro diario, 1993, La stanza del figlio, 2001, Il caimano, 2006), la conferma della comicità di Verdone (Viaggi di nozze, 1995, Gallo cedrone, 1998) cui si affianca quella di Roberto Benigni (Il piccolo diavolo, 1988, Johnny Stecchino,1991, La vita è bella, 1997, altro Oscar come miglior film straniero). Anche se è la Rai che produce il film che più di tutti riesce a sintetizzare il drammatico passaggio che l’Italia ha dovuto attraversa per arrivare nel nuovo secolo con La meglio gioventù (2003, di Marco Tullio Giordana), pensato originariamente per la televisione (in quattro puntate) ma uscito trionfalmente al cinema dopo il premio vinto a Cannes nella sezione «Un certain regard».

Paolo Mereghetti

 

Paolo Mereghetti (Milano 1949) è giornalista professionista e ha lavorato all’Europeo, a Repubblica, a King e al Corriere della Sera, dove ricopre il ruolo di critico cinematografico. Ha scritto per Ombre rosse, Positif, Linea d’ombra, Reset, Ciak e Lo straniero. Ha lavorato alle Mostre del cinema dirette da Lizzani, Rondi e Barbera. È l’autore del Dizionario dei film che porta il suo nome – il Mereghetti – arrivato alla decima edizione. Ha ricevuto i premi Flaiano e De Sica per la critica cinematografica.