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Shoegaze. Stefano Serretta

L’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, in partnership con Konstfack, presenta Shoegaze una nuova commissione di Stefano Serretta. Il progetto, a cura di Vasco Forconi, è parte di un ciclo di mostre che nel corso del 2019 vedrà artisti attivi in Italia e in Svezia confrontarsi con l’edificio dell’Istituto progettato da Gio Ponti.

La grande finestra arredata, disegnata come unica soglia visiva tra l’interno e l’esterno dell’edificio, diventa il palcoscenico e il dispositivo che gli artisti sono invitati ad attivare attraverso la produzione di nuovi lavori. Nel secondo capitolo di Shoegaze Stefano Serretta realizza un’installazione ambientale svuotando lo spazio interno e coprendo interamente la vetrata con fogli di carta di giornale. Questo gesto diventa l’occasione per sviluppare una narrazione fatta di immagini, invitando il pubblico ad attraversare lo spazio e a decodificare i personaggi che, tramite il giornale appositamente disegnato e prodotto, popolano le vetrate dell’edificio.

La grande idea di modernità incarnata nel lavoro e nel pensiero di Gio Ponti fa dell’Istituto Italiano di Cultura un prezioso oggetto architettonico oggi caratterizzato da una condizione di velato sfasamento temporale. Una perfetta capsula del tempo che custodisce al suo interno una promessa di futuro e di fiducia nella razionalità del pensiero che non trova necessario riscontro nel presente politico e culturale. Stefano Serretta mette in scena questa condizione di paradossale sospensione temporale svuotando interamente il foyer e l’auditorium dell’Istituto e ricoprendone le grandi vetrate con fogli di giornale, gesto che nell’immaginario contemporaneo allude al fallimento di un’attività commerciale, offrendo così una diversa lettura dello spazio architettonico. Eppure questa doppia azione di svuotamento e negazione dello sguardo risulta solamente temporanea: all’interno dell’edificio i fogli policromi che ricoprono le grandi finestre, attraversati dalla luce del sole, diventano il mezzo attraverso cui l’artista dispiega un percorso fatto di disegni e frammenti di testo.

Nel suo lavoro Stefano Serretta rivolge spesso l’attenzione ai linguaggi, ai simboli e ai feticci di quelle ideologie politiche e religiose che sopravvivono in un presente ritenuto post-ideologico. L’artista si è immerso a lungo nel mondo delle piattaforme di comunicazione online usate da comunità eterogenee di giovani spesso raggruppati sotto l’etichetta di alt-right, ovvero alternative-right. Tra milioni di profili anonimi e portavoce carismatici, queste zone di internet apparentemente periferiche sono in realtà al centro di una sfrenata produzione e diffusione di immagini, mitologie, simboli e discorsi che veicolano e normalizzano un groviglio inestricabile di umorismo malvagio, nonsense, meme, scorrettezza politica, malessere economico e ansia sociale, antifemminismo e aperto razzismo. Questa infosfera scivolosa, spesso sottovalutata a causa della sua apparente innocuità, rappresenta un luogo di incubazione di discorsi e pratiche che, a partire dalle periferie di internet, si insinuano nel cuore della comunicazione politica contemporanea. L’artista riemerge dall’osservazione di questo universo con la volontà di raccontarne l’intrinseco malessere sociale, l’irrisolvibile ambiguità e il rapporto di perversa fascinazione per le narrazioni totalitarie del ‘900. Ne preleva l’immaginario visivo e verbale – prodotto di una cultura pop mescolata a esoterismo nerd – che analizza, mastica e risputa all’interno dei suoi disegni. È così che nasce Relapse un giornale sospeso tra finzione e verosimiglianza, le cui pagine sono popolate da personaggi ritratti in pose grottesche e in risate estreme, ai limiti del pianto, come fossero intrappolati in una sorta di allucinazione collettiva. Nel ciclo di immagini che Serretta mette in scena all’interno dell’Istituto Italiano di Cultura la cuteness e la cinica innocenza propria di molte sottoculture online si trasformano in mostruosità espressionista. Eppure questi personaggi sfuggono da ogni rigido inquadramento etico. Anche i testi che compongono il giornale si rivelano essere una ripetizione ossessiva di mantra e frammenti di discorso, ambigui e ambivalenti, che l’artista prende in prestito tanto dalla retorica della narrazione politica contemporanea quanto dalla cultura letteraria, cinematografica e musicale, nei quali ironia, paure e ideologia si mescolano in modo inestricabile. Non c’è una risposta semplice e univoca al misto di ambiguità, violenza e malessere di cui questi personaggi si fanno portatori, se non un incitamento a scorgere, sotto la parvenza di novità e disinteresse, il ritorno di paradigmi politici strutturali della nostra società. L’invito che l’artista porge al pubblico è quello di affilare l’attenzione dello sguardo e interrogare i personaggi che popolano le stanze vuote dell’Istituto alla ricerca di messaggi nascosti e – perché no – di una scintilla di speranza politica.

Shoegaze, letteralmente sguardo fisso sulle scarpe, è un omaggio velato all’omonima sottocultura musicale nata in Gran Bretagna alla fine degli anni ’80. Il termine coniato dalla stampa con intento dispregiativo presto ha iniziato a rappresentare un movimento influente, anche se di breve durata, che è stato in grado di resistere al regime di spettacolarità e di intrattenimento dettato dall’industria musicale. Il desiderio di occupare il palcoscenico con un’attitudine timida e tuttavia conflittuale, la determinazione a salvaguardare la propria ricerca artistica e la natura affettiva di questa esperienza collettiva, fanno dello shoegazing un potenziale riferimento per una più giovane generazione di artisti visivi in lotta con l’autorappresentazione, con un’identità precaria e con un’individualizzazione dei comportamenti socio-politici.

Stefano Serretta (Genova, 1987) vive e lavora a Milano. Dopo la laurea in Storia Moderna e Contemporanea ha frequentato il biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Tra le mostre personali e collettive recenti: Spit or Swallow, UNA, Piacenza (2019), Chi Utopia mangia le mele, ex Dogana di terra, Verona, (2018), That’s IT!, MAMbo, Bologna (2018), Il Paradigma di Kuhn, Galleria FuoriCampo, Siena (2018), The Great Learning, La Triennale di Milano, Milano (2017), Primavera 5, Galerie Papillon, Parigi (2016), Teatrum Botanicum, PAV Parco Arte Vivente, Torino (2016), Rubbles in The Jungle, Placentia Arte, Piacenza (2016).

Vasco Forconi (Roma, 1991) vive e lavora tra Roma e Stoccolma. Tra i progetti curati: Talent Prize VI, Casa dell’Architettura, Roma (2013), IT. Spazi di percezione tra intangibile e tangibile, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma (2014), Incontra, Roma (2015), Disrupted Drawings, mhPROJECT, New York (2017), Da Franco Senza Appuntamento, Roma (2018), A Messy Knot (in motion pictures), The Bioscope Independent Cinema, Johannesburg (2018), Italiani brava gente, Fondazione VOLUME!, Roma (2018). Ha da poco concluso CuratorLab, un programma di ricerca curatoriale presso Konstfack, Stoccolma.

  • Organizzato da: Istituto Italiano di Cultura Stoccolma
  • In collaborazione con: Konstfack