In occasione della XIX ed. della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo (21-27 ottobre), quest’anno dedicata a “L’Italiano e il Palcoscenico“, l’Istituto presenta “Tutti non ci sono“, uno spettacolo scritto, diretto e interpretato da Dario D’Ambrosi (Teatro Patologico).
L’Associazione Teatro Patologico nasce nel 1992 diretta dal fondatore e ideatore Dario D’Ambrosi. Dal 1992 l’Associazione si occupa di un lavoro unico ed universale, quello di trovare un contatto tra il teatro e un ambiente dove si lavora sulla malattia mentale, dove girano ragazzi con gravi problemi psichici. Dal 30 Ottobre 2009 l’Associazione del Teatro Patologico ha il suo teatro stabile a Roma in Via Cassia 472, dove nasce la Prima Scuola Europea di Formazione Teatrale per persone con diverse abilità “La magia del Teatro”, che inizia ufficialmente le sue attività didattiche nel gennaio 2010. Questa scuola rappresenta la realizzazione di un sogno: far incontrare il teatro e la malattia mentale in un percorso che, arricchendo entrambe le realtà, trovi un nuovo modo di fare teatro e aiuti migliaia di famiglie coinvolte con malati di mente. Dario D’Ambrosi affianca alla scuola di teatro integrato una programmazione teatrale che propone eventi dove l’elemento sociale resta sempre predominante, partecipando negli anni a numerosi festival e rassegne.
Lo spettacolo “Tutti non ci sono” inizia con la proiezione di un filmato girato a New York dall’italoamericano Gerald Saldo: un breve filmato girato nella Grande Mela, mostra un paziente psichiatrico uscire da un ospedale con una gabbietta vuota in mano e vagare senza meta per la metropoli. L’uomo indossa un camice, un pigiama ed un paio di pantofole; ha il volto bianco e smagrito. È il 1978 e in ossequio alla Legge 180 di Franco Basaglia, chiudono i manicomi. I pazienti vengono dimessi dagli ospedali psichiatrici, catapultati nella città senza alcun criterio, senza considerare che molto spesso il matto viene considerato dalla società come un qualcosa di ingombrante e scomodo, di cui nessuno si vuole assumere la responsabilità. Nel filmato di D’Ambrosi il paziente (Dario stesso) si trova solo, nel caos cittadino, l’unico oggetto che ha con sé è una gabbia vuota. Dopo lungo peregrinare il malato arriva di fronte la porta di un teatro; si passa così dal filmato all’azione scenica. Entra in scena di spalle agli spettatori e si incammina verso la scena. L’esterno, la società, diventa il pubblico, lo spettatore costretto suo malgrado a confrontarsi con la diversità, con un uomo che si fa fatica a considerare un attore che recita. Egli è a stretto contatto con il pubblico e lo invita a fare azioni stravaganti, pronunciare parole di cui ci si vergogna. Procedendo a braccio, D’Ambrosi costringe gli spettatori ad accarezzarlo e a stringerlo, ricreando quella ritrosia che è tipica di chi si trova di fronte a un vero malato di mente. Sulla bocca dello spettatore si disegna quel lieve sorriso di imbarazzo che caratterizza l’atteggiamento che si ha per i matti. D’Ambrosi sembra allora davvero un povero malato e lo spettacolo riesce nel suo intento di dimostrare quanto sia labile il confine tra pazzia e normalità, interrogandosi sul concetto stesso di pazzia al di là dei comuni preconcetti.
Prenotazione non più disponibile